domenica 14 ottobre 2018

BATALLA EN EL CIELO - CARLOS REYGADAS

L'immagine può contenere: una o più persone, persone in piedi, cielo, nuvola, spazio all'aperto e natura

Il vigilante e autista Marcus rapisce assieme alla moglie il figlio di un ricco parente per ottenere un riscatto, il neonato morirà poco dopo a causa di un equivoco. Marcus cercherà conforto tra le braccia di Ana - figlia del suo datore di lavoro -, tra i valori che compongono il suo tenore di vita; il suo lavoro per la nazione, il suo amore (iperbolicamente onanista) per la squadra del cuore, la sua consolazione ai piedi dell'icasticità liturgica di una croce.
Innanzitutto l'omicidio, distrattamente commentato, che è già avvenuto nel fuori campo, anticipatamente all'inizio della nostra visione in medias res, precisa, coadiuvato da altri fattori (uno su tutti, l'allontanamento occasionale, ma tutt'altro che sporadico, dalla semi-soggettiva di Marcus), come Reygadas scelga di non raccontare soltanto la storia del viaggio -illusoriamente- espiatorio di un uomo, né del manipolo di individui coinvolti nelle vicende, ma di impostare il focus sulle connotazioni in ampiezza di una nazione, collocando bandiere e simboli religiosi, configurando lo spaccato antropologico-sociale di Città del Messico in un sistema a specchi, che possa riflettere le carni scoperte di Marcos e comprimari, rendendole riverberi delle loro stesse istanze liminali soffocate.
Nel film di Reygadas, dove luogo e tradizione si fanno regime, dove gli enti (politici, sociali, religiosi) operano una severa coercizione sui protagonisti di Città del Messico, esattamente come accadeva tre anni prima, in Japon, l'edonismo si fa culla e crogiolo di un popolo, luogo di stasi in cui sospendere le insofferenze causate dalla discrasia tra istintualità primordiali e simboli ideologici. D'altronde, la battaglia-nel-cielo di Marcus (che da sé si fa simbolo stesso, araldo della "sua" gente) è esattamente questo: la scongiura di una redenzione tormentata, che passa, ribadendo, attraverso i simboli della società.

giovedì 20 settembre 2018

NUESTRO TIEMPO - CARLOS REYGADAS

Arrivato al quinto lungometraggio in carriera, ed installatosi oramai come cineasta polivalente refrattario a qualunque apprensiva conformità manierista, Carlos Reygadas, forte di questo irreprensibile status, si propone d'informare il pubblico con la sua ultima opera: definitivamente intima e deliberatamente personale.
Ribadendo uno dei topoi centrali di tre quarti della sua filmografia (lo svolgersi degli algoritmi relazionali all'interno delle famiglie) e confrontandolo provocandone i vertici degli svariati - e tuttavia ciclici – risultati possibili dalle infinite equazioni interpersonali; viaggiando quindi tra quadretti domestici inscenanti affiatamento (Batalla en el cielo), infedeltà (Luz silenciosa), incomunicabilità (Post Tenebras Lux), sostando frequentemente nello spazio della metafora (tra tori che dilaniano asini e si battono per la vacca del branco), stabilendo, come da consuetudine, la concezione di simbiosi viscerale tra l'uomo e la natura.
E' Reygadas, ma calato tramite l'escamotage dello pseudonimo in una mise en abyme che sfocia direttamente nella realtà altra dei suoi film. Diegeticamente presente nello script con il nome di Juan, il regista - in veste di demiurgo - traccia le linee del racconto sul dialogo sentimentale aperto con la moglie, tra i fondali rurali del suo Messico.
Dalla sinossi semplice e lineare, i pretesti del discorso introducente Nuestro Tiempo sono presto annunciati: la moglie di Juan, Esther, forte del consenso del marito (i due vivono una relazione aperta), tradisce ripetutamente lui con altri uomini; a dare una svolta imprevista alla quotidianità della coppia sarà un tradimento taciuto e nascosto agli occhi dell'uomo, che scoperto il torto, subirà un contraccolpo che lo porrà nella situazione di rimettere in discussione lo statuto e le regole del rapporto sentimentale/sessuale con la moglie.
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Non mancano nella lunghezza periodi di stanca apparente, costellati da sequenze apparentemente ondivaghe la cui esattezza si rileverà solamente sulla distanza, o coté della trama reiterati insistentemente a più riprese, scene su scene che non aggiungono ma accumulano. Ed è anche il ritmo cadenzato ad insinuare, a più riprese, il dubbio che si stia perdendo il fil rouge della narrazione (nonostante non sia certo la combina con un minutaggio importante ad affrancare una critica all'inedita schematicità narrativa adottata da Reygadas per questo suo ultimo film, né a fare da movente per un'ipotetica offensiva alla ripetitività dei gesti adoperati dai protagonisti). Bisogna presto abituarsi alla nuova modulazione narrativa del cinema del messicano, che questa volta più che mai, ha bisogno di prendersi tutto il tempo necessario, non tanto per raccontare di Loro, ma per ingabbiare in una stasi i sentimenti (forte di una stoica, sincera e già affermata scrittura, scongiura più di una volta ammaraggi melensi, Reygadas, in una sequenza ad alto coefficiente di rischio 'mesto-mélo', durante la lettura in voice over di una lettera destinata ad Esther, assumendosi il rischio (s)comodo di planare - letteralmente - sui terreni fertili e acquitrinosi della drammaturgia) che li intercorrono e li percuotono, cristallizzare il tempo; tutto ciò che Juan e Esther esperiscono viene illustrato su due fronti, scomposto e tradotto pedissequamente in allegoria, che passa nella precisione figurale di cui vengono (filmati ed) investiti animali e locations.
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Ma esiste anche un'altra frontiera di Nuestro Tiempo, nascosta dal profilmico agli occhi dello spettatore, elaborata nel fuori campo in un surrogato di movimenti e non movimenti impercettibili, di tempo raccolto che è già passato, di parole non dette lasciate fuori dall'inquadratura e, simultaneamente, dalla diegesi; riferimenti, strascichi, omissioni. Qua Reygadas calibra i teoremi e gli sguardi fuoricampisti di Dumont e Assayas, assorbendo da quest'ultimo e ricordando frammentariamente la sua penultima fatica (Personal Shopper, 2016), mediante un richiamo insistito alla comunicazione cross-media (vediamo spesso coniugi e comprimari in continua comunicazione a distanza tramite Skype, sms, mail...) e all'adozione occasionale del formato di narrazione transmediale.
Nuestro Tiempo, film che volendo iperbolizzare non mi pentirei di definire privato e periferico, all'interno dell'opera omnia del regista, si delinea forse come il controcampo antitetico ideale del suo secondo progetto a tredici anni di distanza (Batalla en el cielo, 2005); dal macro al microcosmo, da una città a una casa, da un popolo ad una famiglia, il director di Post Tenebras Lux proietta nel privato impasse e tribolazioni comuni dei rapporti interpersonali d'amore (?), in un film che potrebbe rivelarsi un nuovo step evolutivo del cinema di Carlos Reygadas o forse, un titolo puramente episodico. Anche questo, sarà chiaro a suo Tempo.

MOUCHETTE - ROBERT BRESSON

Mouchette è una ragazza di quattordici anni, vive in un piccolo paese rurale della Provenza, la madre è malata e prossima alla morte, il padre è un contrabbandiere alcolizzato. Dall'altra parte della strada, la rivalità fra un guardiacaccia, Mathieu, e un cacciatore di frodo, Arsène; impegnati nella contesa delle campagne circostanti, e del cuore della padrona della taverna locale.
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A distanza di un anno da Au hasard Balthazar (1966), Robert Bresson ritorna all'opera con l'ennesima trasposizione filmica di un romanzo, trattasi questa volta di Nuova storia di Mouchette (1937) dello scrittore coevo e connazionale Georges Bernanos. Già sedici anni primi il regista francese si era prodigato nella trattazione di un'opera dello scrittore, fu la volta de Il diario di un curato di campagna (1951), titolo che riprende testualmente l'originale omonimo racconto. Esattamente come accadde nel precedente caso, ancora una volta Bresson annulla la psicologia letteraria del romanzo di Bernanos, conservandone tuttavia la struttura sintattica rapsodica, e trapiantandola all'interno del film. Non è novità la tecnica narrativa attuata da Bresson, onnipresente nell'opera omnia dell'autore, è curioso però constatare come i testi stessi dello scrittore si prestino con un'aderenza organica a questo processo di spoliazione.
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E così in Mouchette la modulazione del racconto non può che comporsi di sineddochi: le immagini e gli spazi vengono radicalmente svuotati – e ridotti a frammenti - , il verbo di Bresson impone l'essenzialità come strumento per rilevare il vero. Per arrivare a questo risultato, Bresson si avvale di richiami sinestesiaci che rimandino, attraverso il dettaglio, a degli insiemi identificabili (memorizzati in modelli riconoscibili, ad esempio in luoghi-stereotipo). Si pensi all'icasticità della sequenza iniziale: il bracconiere Arsène sta piazzando le sue tagliole nella boscaglia, Mathieu lo sorveglia acquattato dietro a dei rami, una rondine cade in trappola, Mathieu si avvicina per liberarla credendo che Arsène se ne sia andato, mentre in realtà quest'ultimo a sua volta lo spia, prima di ritornare sui suoi passi.
In poche immagini Bresson, attraverso l'utilizzo di primissimi piani e di inquadrature sui dettagli, presenta la frontalità di uno scontro, di un gioco di sguardi, un duello serrato. Mostrando esclusivamente dei frammenti del quadro (mani, oggetti, mezzi busti, occhi...), illustra con definizione una situazione comprensibile per associazione e percezione dello spettatore (d'altronde Bresson spesso usava sottolineare l'importanza della "presenza attiva" del pubblico nei meccanismi del Cinematografo). Inoltre, è un altro richiamo del metatesto filmico alla formula dello scritto di Bernanos. Ad evidenziare con un certo nitore ciò, uno specifico passaggio nel testo: "Ognora intimidita dallo sguardo... Aveva scoperto la prodigiosa facoltà d'espressione delle mani umane, mille volte più rivelatrici degli occhi perché non sono altrettanto abili a mentire, si lasciano soprendere a ogni minuto, occupate come sono in mille faccende materiali, mentre lo sguardo, instancabile vedetta, veglia alle mura delle palpebre [...]" (Nuova storia di Mouchette / Georges Bernanos, 1937).
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L'assonometria del Cinematografo [per maggiori delucidazioni in merito, si consulti Notes sur le cinématographe (Robert Bresson, 1975)] si impone come principio cardine la sottrazione degli elementi dall'immagine e la scarnificazione delle stesse per trovarne il punto estatico, e si disadorna per continuità la stessa narrazione, ripercorrendo reiterando passaggi, senza addizionare o annettere movimenti o ricami o orpelli di sorta. Inutile sottolineare come in questa metodologia di racconto anche la drammaturgia venga detratta, e da lì risalga anche la scelta di Bresson (conseguente ai primi due lavori, Les Anges du péché e Les dames du Bois de Boulogne) di avvalersi dei denominati "modelli", interpreti occasionali istruiti dal regista all'abbandono della recita enfatica derivante dal reame teatrale, e guidati alla semplice replica asettica del copione. Tra i modelli bressoniani più famosi, un posto importante lo occupa senz'altro la protagonista di questo film, Nadine Nortier.
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La Nortier incarna la protagonista dell'ottavo lungometraggio di Robert Bresson, la Mouchette annunciata dal titolo. Tratti ferini, corporatura emaciata, sguardo fosco perennemente basso, un'esile figura latrice d'infausta melanconia, che un po' ritrova nelle sue fattezze l'asinello Balthazar, tant'è che anche lei si palesa "all'improvviso", estemporaneamente, ma, come ben presto avremo modo di scoprire, le analogie con la povera bestia del film precedente finiscono qui.
Se Balthazar concretizzava nella sua simbolicità l'imago christi per antonomasia, passivo alle angherie dell'essere umano e destinato ad un lungo e travagliato pellegrinaggio sulla Terra, Mouchette appare tutt'altro che docile e passiva agli affronti, anzi, spesso si compiace nel rispondere per le rime ai torti dei suoi aguzzini. Bresson, con il consueto sguardo clinico, non s'impegna ad elargire una retorica sugli atteggiamenti della ragazzina, non ricama giudizi su una (in)giustizia, pone un racconto, che nella sua essenza di per sé drammatica, basta ad investire di gravità la rappresentazione della perdita e dei vuoti dei compaesani e di Mouchette.
E' il fato, il destino sgarba le vite dei soggetti bressoniani; essi o finiscono i propri giorni tra le mura di conventi o parrocchie, o divengono infingardi, carcerati, briganti, uomini di malaffare. Consegnati ad un'esistenza tragica, designati all'infelicità.
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Mouchette, nel limbo adolescenziale, si ritrova impaniata nello spettro della donna, pur non essendo ancora tale, coperta dalle responsabilità altrui, travolta dalle negligenze di chi di lei si dovrebbe prender cura, e segregata in solitudine. Nasce così in Mouchette un sentimento di contemptus mundi, un disprezzo sentito nei confronti dell'autorità del padre violento, degli insegnanti arroganti, dei coetanei screanzati; Mouchette, con il progredire della vicenda, si ribella a tutti loro (risponde bersagliando con palle di terra le compagne di scuola che l'avevano schernita, sporca di fango le scarpe del padre prima di entrare in chiesa, non si fa remore neppure nell'assecondare Arsène nelle sue nefandezze, diventandone complice e dichiarandosi amante del bandito, edulcorerà persino la verità sull'abuso subito quando posta ad interrogatorio...).
Questi atteggiamenti sprezzanti e inverecondi, fanno da contraltare al lato docile e premuroso della bambina, manifestato esclusivamente con i pochi individui che paiono volersi accorgere e prendere cura di lei (Mouchette assiste continuamente la madre costretta a letto, culla il fratello neonato, prepara la colazione per la famiglia, passa la domenica a lavorare alla taverna, si prende cura persino di Arsène mentre quest'ultimo è in preda ad una colica...). In questi brevi attimi - trasudanti di pietas - Mouchette sembra quasi distaccarsi dalla sua malinconia, e ritrovare un bagliore di speranza nel prossimo; bagliore repentinamente offuscato, se non da uno schiaffo del padre (provvidente nell'interrompere un possibile avvicendamento tra la figlia e un ragazzo conosciuto agli autoscontri - a cui peraltro Mouchette rivolgerà il primo ed ultimo sorriso della sua vita - ), dall'infatuazione e dalla fiducia tradita nei confronti di Arsène, o dalla morte tempestiva della madre, prima che Mouchette possa confidarle i sentimenti serbati.
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Dal sogno diafano di un avvenuto indiscreto, incomprensibile per la stessa protagonista, ormai in ogni caso diventa anch'esso soltanto un dettaglio. Sola e senza più prossimità di empatia o redenzione, anche Mouchette si arrende all'ineluttabilità del fato, esattamente come le prede che nel pre finale si arrendono ai cacciatori, la resa di Mouchette coincide forse con la cognizione e l'accettazione verso le ultime parole riservategli, "ha il male negli occhi", il male inscindibile. "Ora che non lotta più, Mouchette ritrova quella rassegnazione istintiva, incosciente, che assomiglia a quella degli animali" (Georges Bernanos).
Mouchette decide di abiurare la vita attraverso il gioco; si avvolge nella tela di un vestito nuovo, e si rotola giù da una collina, precipitando nelle acque del fiume che infine l'accolgono. "Il suicidio di Mouchette non è un suicidio propriamente detto; ai miei occhi è la morte del toro che si è ben battuto e che non può far altro che tendere il collo." (G. Bernanos)
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Robert Bresson da sempre instilla la filosofia giansenista come leitmotiv esistenziale dei propri personaggi, cosicché essi nascano corrotti, predestinati a fare il male e a cedere al peccato, e solamente in seguito al trapasso, se il determinismo preordinato lo vorrà, potranno essere assolti con la Grazia. "La morte la vedo non come fine, ma come principio. L'inizio di una nuova vita nella quale si potrà trovare la rivelazione di quell'amore sulla Terra appena intravisto."

NO QUARTO DA VANDA - PEDRO COSTA

Vediamo la demolizione del Barrio des Fontainhas a Lisbona, un distretto abbandonato al suo miserabile destino al pari dei suoi altrettanto miserabili abitanti. In mezzo a questo conglomerato etnico di reietti vive una delle due protagoniste del precedente lungometraggio di Costa (Ossos, 1997), Vanda. Anzi meglio, vive Vanda, che vive nella sua stanza, o vi è la stanza in cui vive Vanda, o il paesino all'interno del quale vi è una casa, in cui in una turpe stanzetta vive Vanda. Il perché di questo cacofonico groviglio di metonimie, apparentemente tautologico, è sublimato nella poetica dello stesso P. Costa, che, rifugge da qualsivoglia criterizzazione del protagonismo e delle esistenze all'interno della propria ermeneutica cinematografica.
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In un cinema in cui sono le strade malfamate, i vicoli, le case popolari, le baracche fatiscenti, ad ergersi attorno alle coincidenti spoglie dei proprietari, ad imprigionare l'obbiettivo stesso che guarda e che mostra (un po' come accadeva nei film del primo Sarunas Bartas), si libra l'osmosi tra il luogo e il residente. Se non fosse abbastanza lampante il concetto enunciato, si pensi anche solo al prologo e all'epilogo in medias res del film di Costa: il film inizia e finisce nella stessa stanza, con i medesimi personaggi ripetenti le medesime routine; spontaneamente noncuranti dell'irrimediabile disfacimento progressivo della propria abitazione. Questa decadenza immortalata dei locali e dei corpi, delle abitazioni e degli abitanti (dei contenenti e dei contenuti), che per assonanza figurale può suggerire un accostamento all'immaginario prospettico del regista coreano Tsai Ming Liang, trova il suo contraltare ideale nell'immobilità illusoria del contesto, che illusoriamente conserva la tragedia, quasi procrastinandola ad un secondo tempo.
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Lungo i centottanta minuti di durata, di fatto, assistiamo al lento ma costante crollo della comunità dimora di Vanda e dei suoi amici e concittadini, mentre le gru e le ruspe abbattono muri ed edifici, simultaneamente seguiamo il graduale degrado fisico e psichico della protagonista, segregata volontariamente nel proprio anfratto, impegnata ininterrottamente nel consumo di crack ed eroina.
Ma il documentato da Costa è spoglio di qualsiasi forma di sensazionalismo, e la secca cronaca in presa diretta sullo spaccato del proletariato portoghese è tecnica narrativa padrona del film. L'avanzamento abrasivo dell'intreccio rifugge il pathos drammatico e asciuga la tensione del dramma stesso proiettandolo in un'ottica di stasi consumata, evidenziando la situazione iniziale presentataci come parte di un lungo periodo, lontano dal volgere al termine nonostante lo smantellamento prossimo.
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Breve digressione tecnica doverosa: Costa sottrae anche dalla regia, eliminando ogni movimento di macchina, catturando le immagini esclusivamente attraverso un largo uso di inquadrature statiche e persistenti longtakes; il minimalismo si estende anche alla rappresentazione dei personaggi richiesta agli interpreti non attori, attraverso quella che Michel Guarnieri definisce "una bressoniana progressione verso l'esattezza" (dal saggio Questi fiori malati. Il cinema di Pedro Costa, Bèbert Edizioni, 2017). La recita viene scarnificata nella propria enfasi declamatoria (esattamente come accade nel cinema di Bresson), e gli interpreti corretti a trovare le misure ideali per restituire la credibilità e il realismo del contesto filmato, senza cedere la naturalezza personale della genuinità.no-quarto-da-vanda-1
Si noti infine come No quarto da Vanda, avvalendosi della forma rappresentativa adottata (tutt'altro che morigerata e soggetta ad omissioni visive di sorta) e allo sguardo percettibilmente clinico del regista sulla scena, non sia soltanto raffigurazione raccontata con distacco apatico del degrado e della desolazione a cui è soggetta la piccola periferia e i suoi abitanti (nonostante l'icasticità stessa delle immagini, le riprese fisse sulla buia e abietta camera di Vanda e l'interposizione con le scene in cui le ruspe fanno tabula rasa del quartiere - a metaforizzare una minaccia ventura e una sorte ineludibile; questi quadretti piuttosto tangibili), ma anche cronaca di una resilienza testarda e ostinata, quasi irriverente per quanto sfrontata e spensierata; disinteressata alla sopravvivenza, votata all'abbandono.

SOMBRE - PHILIPPE GRANDRIEUX

Jean (Marc Barbé) è un marionettista che sta seguendo il Tour de France a bordo della sua macchina, saltuariamente si ferma per qualche incontro occasionale con prostitute e donne di passaggio sulla sua strada. I rapporti sessuali che intrattiene sfociano spesso in violente e improvvise efferatezze che portano alla morte dell'altra. Poi conosce Claire (Elina Lowensohn) e Christine (Géraldine Voillat), due sorelle con le quali organizza una scampagnata in prossimità di un lago; Jean aggredisce Christine mentre la sorella è lontana, quest'ultima accorre in tempo per evitare la tragedia. Jean incontrerà ancora Claire successivamente, e i due instaureranno un torbido rapporto.
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Sombre segna l'esordio cinematografico del regista francese Philippe Grandrieux, introducendo già nelle prime inquadrature e nei primi istanti la personale politica filmica del regista; nelle prime immagini iniziamo a vedere lo scuro (sombre) annunciato dal titolo, l'ombra cupa su paesaggi austeri, il bagliore di un sole alienato in lontananza oltre una vallata. Stacco di montaggio. Un teatro, dei volti di bambini osservano e irridono uno spettacolo che noi non possiamo vedere, poiché lasciato dietro al profilmico, nel fuori campo. Stacco di montaggio. Vediamo la prima violenza; Jean si protrae su una donna, i due sono in procinto di iniziare l'amplesso, un raptus animalesco estemporaneo coglie Jean, che si scaglia su di lei sopprimendola.
Nei sette minuti iniziatici alla visione veniamo, come summenzionato, anche iniziati a quello che sarà di lì in avanti il protocollo principale (e)seguito dal regista, attinente al proprio diagramma cinematografico: l'utilizzo insistito di un montaggio ellittico, la scelta di filmare fuori fuoco individui e paesaggi, la qualificazione dell'essenzialità come verbo da perseguire. Ecco - l'essenzialità – ricorda un po' il minimalismo scenico dumontianoGrandrieux mostra allo spettatore non più di quanto serva per comprendere una situazione di fondo, nelle prime sequenze di Sombre assorbiamo la metodologia dell'assassino seriale Jean, la svolta sarà l'inaspettato incontro con Claire.
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I frequenti jump-cut che frammentano le scene collimano con le ellissi, tagliando fuori tutto ciò che sarebbe superfluo mostrare. Il visibile è ridotto ulteriormente da un altro fattore dominante nel cinema di Grandrieux, l'onnipresenza dell'oscurità. La densità del buio nell'immagine (che per gestione iconico-cromatica può ricordare lo stile delle pellicole di Pedro Costa), unita all'accostamento di una ripresa vicinissima ai corpi dei personaggi, e alle ellissi, contribuisce ad intensificare la confusionarietà e lo spaesamento della visione, senza mai essere realmente confusionaria per lo spettatore che vede, ma restituendone soltanto la sensazione propria, irriflessa, dei caratteri protagonisti delle scene. La rifrazione del filmato sui caratteri - e su i loro corpi - ha ben più di una finalità meramente voyeuristica, è la rappresentazione equivalente delle emotività presenti in scena, attraverso la compenetrazione della cinepresa con l'ambiente e con l'organicità dei corpi astanti. E' la percezione che lo sguardo dei protagonisti riprenda gli stessi tramite una rotazione di soggettive.
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Il punto primario per valenza nel cinema di Grandrieux risiede tuttavia nel sonoro, che sorpassa nelle gerarchie persino la potenza visiva delle immagini. I campionamenti ambientali, ma innanzitutto i suoni emessi dai corpi, sono la prima preminente manifestazione d'espressione; sono i rantoli, i gemiti, i sospiri, gli strilli, i singhiozzi, a imperare la scena, tanto da esercitare un'egemonia sulla figurazione stessa, attraverso la loro istantaneità assimilatoria. L'incapacità naturale dell'immagine di arrivare prima del suono la relega inevitabilmente in secondo piano, in questo senso la trasmissione sensoriale nelle scene inizia quasi impercettibilmente dai ritorni acustici.
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Questa potente comunione immagine-sonoro è l'elemento che permette a Grandrieux di far emergere le forze (di cui spesso fa menzione in interviste rilasciate negli ultimi anni) che agiscono all'interno del campo visivo, che paiono al tempo stesso provenire da un controcampo celato agli occhi dello spettatore. Queste forze si traducono in una corrente invisibile percettibile ma non indicizzabile, né riconoscibile; come detto poc'anzi, forse emanazione dell'interiorità stessa dei corpi.
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Rivolgendosi alla diegesi, e allo sviluppo del narrato, dopo i primi incontri "conoscitivi" (e contemplativi), tra Jean e Claire cresce un'attrazione reciproca dettata dalle pulsioni, che li spinge in maniera sempre più condiscendente ad unirsi. Se del personaggio di Jean ormai conosciamo la sessualità corrotta e l'irrefrenabile necessità di consumare il proprio edonismo maligno, di Claire scopriamo soltanto nel pre finale le ragioni che la spingono a seguire Jean. La relazione tra Jean e Claire rifugge da qualsivoglia logica rapportuale all'infuori della pura istintività, quasi animalesca, di riconoscersi come due forme complementari, e perciò in grado di identificarsi nella condivisione della propria intimità. La solitudine è ciò che li accomuna, e ad avvicinarli è un linguaggio ridotto a meno del gesto, la parola che passa attraverso alla radicalizzazione sensitiva (che è anche un'ideale metafora del cinema dell'autore francese).
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L'apice del legame è raggiunto nella fusione dei corpi durante l'amplesso, scena dalla forte connotazione vampirica, che ricorda per affinità il rapporto sessuale incestuoso tra Pierre e Isabelle nel Pola X di Leos Carax, con le medesime tenebre che avvolgono il corpo dei due amanti. Pochi minuti dopo in un lampo di lucidità Jean implora Claire di fuggire lontano da lui, lei malvolentieri sale su una macchina e si allontana. Durante il tragitto mentirà all'autista raccontando di Jean come di un marito, di figli; omettendo la natura leziosa del loro rapporto. Più tardi, confidandosi con la donna che le aveva offerto il passaggio, si persuaderà di tornare da Jean. L'ultimo incontro sarà beffardamente fatale.
La chiusa drammatica posta al finale sottolinea l'ironica predestinazione di due amanti lanciati verso l'autodistruzione, mediante la spietata ineluttabilità dell'amour fou ostinato.
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L'opera prima di Philippe Grandrieux si fregia dell'esemplarità nell'esposizione di un linguaggio cinematografico fino ad allora inedito. Per mezzo di ciò raccontando - partendo da un archetipo quasi fiabesco - la convergenza nella miseria del corpo e dell'anima.

lunedì 30 aprile 2018

FAR EAST FILM FESTIVAL 20 HIGHLIGHTS: 1987, WHEN THE DAY COMES - GONJIAM HAUNTED ASYLUM


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1987, uno studente di Seul tenuto in custodia dalle forze dell'ordine viene dichiarato morto di arresto cardiaco durante un interrogatorio. Di lì a poco emergono preoccupanti retroscena: segni di tortura sul corpo del ragazzo rinvenuti durante l'autopsia suscitano l'indignazione del procuratore Choi Hwan (Ha Jung-woo); coriaceo, brusco, integerrimo (e alcolizzato), pronto a tutto pur di sfruttare questo appiglio al fine di riversare l'esaurimento dell'opinione pubblica - stremata dal regime reazionario vigente - sulle istituzioni, per far vacillare i ruoli dei propri superiori corrotti.
A mettere i bastoni fra le ruote al collega, c'è il direttore dell'Ufficio Investigativo Anticomunismo Park Cheo-woo (un Kim Yoon-seok in gran spolvero), tirannico burocrate deciso ad insabbiare le prove circa l'abuso di potere dei propri subordinati sullo studente.
Completa il trittico di protagonisti Yeon-hee (Kim Tae-ri), una studentessa universitaria coinvolta involontariamente nella rivolta popolare, in cerca della propria strada nella vita.

E così il film si dipana tra più livelli di narrazione che si intrecciano (quasi senza soluzione di continuità), dando forma ad un mosaico di prospettive convergenti. Veniamo abituati a seguire tre storie in costante sovrapposizione, legate dal leitmotiv storico dominante. Ciò che prevale fin dai primi minuti è l'enfasi posta alla drammaticità, che travalica qualsivoglia discorso politico, ponendo come modello ideale l'immaginario blockbuster in cui i toni drammatici superano prepotentemente la cronaca documentaristica degli eventi. Il regista punta il focus sulle relazioni tra comprimari e protagonisti, sull'impatto della rivoluzione imminente sulle loro vite, e ancora, dirige l'obbiettivo sulla lotta di classe, sull'abuso di potere da parte delle autorità e sulla controversa discriminazione sociale.
1987: when the day comes fa della propria facciata apparentemente politica un pretesto per inscenare il dramma, con riuscitissimo impiego di star internazionali in ruoli delicati, propone il thriller spioneristico per antonomasia senza scivolare mai in banali cliché del genere.

Risultati immagini per gonjiam haunted asylumGONJIAM: HAUNTED ASYLUM

Un piccolo gruppo di ragazzi viene ingaggiato da un'emittente web per riprendersi durante la notte all'interno del manicomio abbandonato di Gonjiam. A fronte della lauta ricompensa promessa, i protagonisti si ritroveranno inizialmente a simulare aggressioni da parte di entità sovrannaturali, salvo in un secondo momento ritrovarsi costretti a riconoscere il pericolo incombente.

Riprendendo come modello gli stilemi found footage dei conclamati capisaldi del genere horror mockumentary, Gonjiam: Haunted Asylum si pone come una curiosa caricatura del filone; slacciando a più riprese l'atmosfera da film dell'orrore da una forte vena ironica. Laddove il film di Beom-sik  Jeong si presenta come un ricalco parodistico che richiama uno dopo l'altro tutti gli stereotipi del genere, dall'altra non lesina dal cercare a più riprese (talvolta attraverso qualche forzatura)  un incursione nel territorio del demenziale, macchiettizzando personaggi e situazioni, ricamando caricature e, allo stesso tempo, tentando delle sortite sul fronte del pop trash.
Ripetuti stacchi di montaggio dividono le sequenze come veri e propri atti, quasi frammentando il film stesso, scandagliando tutti i passaggi convenzionali del canovaccio narrativo tipico nel falso documentario. Altra scelta registica abusata è il frequente utilizzo di primissimi piani sui volti dei protagonisti durante le scorribande nel sanatorio, enfatizzando la prospettiva degli stessi, limitata dal buio persistente che li circonda. Questi espedienti volti alla creazione della peculiare atmosfera ansiogena richiamano tutti i debiti dell'autore nei confronti dei sopr'accennati precursori, dagli ESP dei Vicious Bros., alla saga Rec diretta da Jaume Balaguero, passando per i Paranormal Activity, fino al celeberrimo The Blair Witch Project del '99.
In Gonjiam: Haunted Asylum l'horror precipita nella comicità irridente, il risultato di questo curioso incrocio è quantomeno singolare, e la natura ibrida stessa dell'horror firmato Beom-sik Jeong si fa garante di disorientamento e sorpresa. Non mancano sottili stilettate al mondo social e all'ambiguità dei sistemi di comunicazione moderni.

giovedì 1 marzo 2018

YORGOS LANTHIMOS - THE LOBSTER -

Risultati immagini per the lobsterINTRODUZIONE ALLA TRAMA

In una realtà alternativa (o in un futuro non poi così lontano) leggi ferree impongono la vita di coppia agli abitanti della Città. I single vengono arrestati e obbligati a soggiornare in un struttura (l'Hotel) dove dovranno trovarsi un partner idoneo entro quarantacinque giorni. Se alla scadenza di tale periodo "l'ospite" fallisce nella missione viene trasformato in un animale a scelta.
David (Colin Farrell) è stato appena tradito e abbandonato dalla moglie e come da protocollo viene subito deportato all'Hotel. Quando al questionario di check-in gli viene chiesto in quale animale preferirebbe essere commutato in caso di insuccesso egli risponde "l'aragosta".

TRATTAZIONE

The Lobster è il primo film in lingua inglese (peraltro non girato in Grecia) di Yorgos Lanthimos. A tal proposito il regista spiega: "Gli ultimi tre film li ho scritti con Efthymis Filippou e alla fine di ogni progetto iniziamo a discutere di cosa ci piacerebbe fare dopo. Parliamo di tutto, situazioni, piccole storie, e cominciamo a costruire la vicenda da lì. In questo caso ci siamo concentrati sulle relazioni umane, come le altre volte in realtà, ma stavolta in una declinazione romantica. La scelta di girare in inglese è mia. Dopo tre film in Grecia ho sentito il bisogno di ampliare i miei orizzonti e mi sono trasferito in Inghilterra con lo scopo di girare un film là. Tra l'altro questa era la storia perfetta, perché non necessitava di essere ambientata in un paese specifico e potevo scegliere qualsiasi attore volessi senza pormi il problema della nazionalità".

Risultati immagini per the lobsterLe location, scelte in Irlanda: Sneem, Dublino, la Contea di Kerry. Il cast: Colin Farrell, Rachel Weisz, John C. Reilly, Lea Seydoux, Ben Whishaw tra le star hollywoodiane, affiancate dai "feticci" del regista, le attrici Angeliki Papoulia e Ariane Labed, e diversi non professionisti con (e su) cui il regista si è sempre dichiarato ben disposto a lavorare. Questo melting pot internazionale (e interrazziale) implicò una discreta frenesia nell'operato tutto, complici scadenze e termini contrattuali, fu una delle incidenze che spinse per la scelta di girare le scene in ordine cronologico, aldilà delle ugualmente congruenti idee del film-maker, che aggiunge: "La differenza principale è che stavolta siamo stati in grado di pagare tutti. Abbiamo avuto grande libertà creativa e abbiamo realizzato il film che volevamo fare. Sono fortunato a lavorare con dei produttori che mi supportano. La differenza è stata che abbiamo cambiato paese, quindi abbiamo usato lo stesso approccio in un contesto diverso, con regole e caratteristiche diverse".

Risultati immagini per the lobsterUn cambiamento non da poco. Traducibile - superficialmente o no fate voi - in un'espatriata accattivante, un'occasione per il regista e per il grande pubblico di scoprire/farsi scoprire e viceversa. Annoverare grandi nomi cresciuti in una realtà periferica e successivamente evolutosi o involutosi in un contesto d'ampio respiro - talvolta mettendovi radici, talvolta no - sarebbe poca cosa, molto più interessante il caso di Yorgos Lanthimos, un regista che si era già messo in luce negli anni passati (Un Certain Regard a Cannes per Kynodontas nel 2009, una candidatura per il Leone d'oro ad Alps nel 2011 e nella stessa edizione la vincita del premio per la miglior sceneggiatura) e che ora si affaccia prominentemente dalla finestra sull'altro continente. Prova superata? E' presto detto: coerentemente alle proprie parole, la dislocazione geografica non ha snaturato la sostanza concettuale nell'immaginario di Lanthimos, né la sua espressione scenica. Cambia il contenente ma non il contenuto: la prima marcata ed evidente alterazione nel cinema del greco riscontrabile in The Lobster è nell'inserzione sonora, o meglio, musicale. Nei tre precedenti lungometraggi il commento musicale era pressoché estirpato, diegetiche le uniche melodie presenti, pure poche (ricordo la chitarra suonata dal figlio maggiore in Kynodontas, o la musica classica riprodotta dallo stereo nei primi cinque minuti di Alps), nei primi minuti di The Lobster viene presto presentata un'armonia richiamata e ripetuta poi frequentemente lungo il resto del film, questa volta sì extradiegetica, archi e violini sottolineano con gravità alcuni dei passaggi cruciali del narrato. Altra innovazione considerevole: vi sono preziosismi registici. Questa volta Lanthimos si prende il gusto di esprimere appieno tutta la propria perizia tecnica in termini di spettacolarità, nascosta nei precedenti lavori dalla geniale scelta di auto annullare la regia, di soffocare totalmente la presenza di un corpo che riprende il campo visivo illudendo lo spettatore di seguire invisibile gli eventi in prima persona. In questo ultimo film la sensazione del "per mezzo di, allora noi vediamo" è quasi palpabile, il comparto visivo caratteristicamente iperrealista, un calibrato montaggio alternato scandisce la routine quotidiana di David nell'Hotel, la mdp c'è e di rado corre, perfino, Lanthimos si permette qualche breve sequenza in ralenti.

Risultati immagini per the lobsterRiprendo; come constatato cambia formalmente l'approccio tecnico: una notevole e lampante rivoluzione audio (e) visiva. Il nocciolo a differenza del guscio no: Lanthimos procede imperterrito la sua indagine sulle (anti)convenzioni confacenti il binomio uomo - società, si potrebbe riassumere asserendo che il film sia una dissertazione sociale-antropologica imbastita sul trono dell'allegoria.
D'altronde il regista greco non è nuovo a slanci surrealisti (seppur strettamente ancorati ad una simbologia figurativa, tant'è prevalentemente allusa) e qui non da meno, imposta una trama con annesso sottotesto pseudo allegorico congiunto, non soggiacente però: da subito si rivela la trama essere designata alla frammentazione, invero sono le metafore a riversarsi nella/sulla scena dando corpo ad un apologo distopico assiduamente sospeso tra il lirismo e lo humour triviale, in aritmetico equilibrio.

Risultati immagini per the lobsterE' presente un'ulteriore novità: per la prima volta in un soggetto curato dal regista greco il protagonista è in possesso di un antroponimo. Si chiama David, e come accennato poc'anzi nel riepilogo della sinossi è appena stato lasciato dalla moglie dopo una relazione durata dodici anni, pertanto costretto alla permanenza in una struttura riabilitativa allo scopo di accoppiarsi nuovamente. Giunto all'Hotel a David vengono perentoriamente presentate le regole del percorso di reintegrazione: poco più di un mese di tempo per trovare un partner, frattanto verrà impegnato in una serie di passatempi (che variano dalla caccia - ad altri uomini fallaci trasformati in animali, piuttosto che ai ribelli - al tiro al bersaglio, alla compilazione di altri questionari e via dicendo), oltre alla rigida imposizione di misure antitetiche che vanno dalle taglie delle scarpe (letteralmente inconcepibile che un paziente indossi mezze misure), all'orientamento sessuale (nel modulo il paziente è obbligato a selezionare una singola opzione fra etero e omosessuale), alla non scelta del vestiario (tutti i maschi indossano lo stesso capo d'abbigliamento, e così anche per le femmine), alla selezione del compagno (che deve presentare analoghe caratteristiche fisiche, per cui uno zoppo o un cieco non debbono accoppiarsi con un individuo sano), e persino in vita animale (ogni paziente mutato potrà unirsi soltanto ad uno della stessa specie). Di fatto non sono bene accette le "mezze misure" nel mondo di The Lobster, tanto meno all'interno dell'albergo-clinica. Questo dispotismo comandato come esito conduce le persone incarcerate in uno stato atarassico tra l'impotenza, la penitenza e una mite paura cieca mediante la repressione dell'individualità.

Risultati immagini per the lobsterIl dominio totalitarista esercitato dagli enti detentori dell'autorità nel film è finalizzato al controllo assoluto sulla vita privata dei popolani, controllo concentrato in primo luogo sui rapporti interpersonali nelle coppie. L'unione dei singoli deve essere meccanica, codificata nel rispetto delle norme contemplate e metodicamente programmata: ordita secondo un sincronismo schematico, un algoritmo di chirurgica efficace precisione. Il pragmatismo è il verbo scelto dalle vigenti istituzioni, semplificare e ridurre il margine d'errore, per assunto: minimizzare il limite di fallibilità umano.
Come ogni regime dittatoriale che si rispetti, la minaccia di una punizione esemplare basta a rattrappire e rendere inermi i pochi refrattari alla sottomissione, i single ribelli vengono intimiditi con la violenza inizialmente, e se fautori dei peggiori reati trasformati anzitempo in animali.
La soppressione violenta catalizza oltremodo l'autorità dei governanti. Nella mitologia greca la metempsicosi uomo-animale è considerata un processo punitivo comune, operato dagli dei; nel microcosmo delineato da Lanthimos s'incarica un manipolo oligarchico di uomini - una sorta di stato autocrate invisibile e onnipresente - ad assolvere alla funzione regolando e condannando i propri simili e deificando il potere corrente.

Risultati immagini per the lobsterArrivato alla scadenza del tempo massimo di soggiorno nella struttura in vesti umane, David cede, e per disperazione si unisce a una donna crudele avvicinandola simulandone la personalità. La finzione ha breve durata, un mattino David trova il cadavere del fratello (in passato trasmutato in cane dal personale dell'Hotel) assassinato durante la notte dalla donna. Il diverbio che segue - con successiva reazione collerica del protagonista - costringe l'uomo ad una determinata azione estremamente sovversiva: abbandonare l'Hotel e fuggire nella boscaglia circostante.

David nel Bosco entra in contatto con una seconda organizzazione, i Solitari, un gruppo di ribelli che si antepone per principi alla società costituita, vietando categoricamente ai propri membri l'accoppiamento (comminando ciò nonostante pene altrettanto severe). Paradossalmente è in questo contesto che David incontra la sua partner ideale, una donna per di più affetta da miopia esattamente come lui e pertanto perfettamente corrispondente (voice over narrante fino a questo punto, che si rivela quindi diegetica). L'ambiente in cui il protagonista sembrava aver trovato rifugio diventa repentinamente ostile.
David e la donna miope si amano di nascosto dialogando per gesti e codici, fingendosi una coppia nell'unico momento in cui sono tenuti ad esserlo, ovvero sotto copertura nel corso di brevi incursioni nella Città (terza location nel film di Lanthimos, ove la comunità si attiene ai principi omonimi in vigore all'Hotel/purgatorio) per racimolare rifornimenti.
Città e Hotel ad un certo punto sono soggette ad incursioni sempre più ardite da parte dei Solitari. Sebbene la "resistenza" non tenti direttamente di ribaltare il governo, non lesina dall'istigarlo (sfidando) sarcasticamente - nel corso di sempre meno sporadici raid urbani - i cittadini soggiogati, rivelandone sguaiatamente l'ipocrisia, l'insensata costrizione del gioco di cui sono preda.

Immagine correlataIn mezzo a questo spartiacque fra single e coniugati che inesorabilmente spinge verso il culmine di una guerriglia, resta David, vittima di un rimpallo coatto tra due ordini che adoperano attraverso l'attinente precettistica una rigida coercizione sugli "adepti", a dimostrazione estrema che la dissonanza tra le due forme di società non computa una diversità sostanziale aldilà dei fini, mentre l'archetipo formale alla base è il medesimo, così come i mezzi impiegati per perseguire negli scopi.
Seguiamo il viaggio travagliato del protagonista fino ad una tavola calda, seduto difronte alla sua nuova compagna - a cui nel frattempo il leader della setta ribelle ha tolto la vista, castigo conseguente all'infatuazione proibita - sembra risoluto quando si dice preparato ad appianare la nuova distanza che li divide dall'omologazione simmetrica, accecandosi.

Con ragguardevole nitore figurale specifico del surrealismo Lanthimos vaglia l'ipocrisia del rapporto di coppia, del singolo, dell'incidenza di aspettative e pressioni esterne su di essi, dell'opinione pubblica. Cita e parafrasa Orwell, ritrae l'abiezione della relazione interpersonale sentimentale. Ineccepibile.
Premio della giuria al Festival di Cannes.